Articolo di Daniela Castelli su L’Indro

L’equazione Cina e infrastrutture porta in seno molte incognite. Le dimensioni del Paese, meta ideale della sperimentazione artistica e della creatività straniere, spingono gli architetti governativi a osare e a costruire opere mastodontiche, che spesso una volta terminate rimangono pressoché vuote.

Nella disperata ricerca del ripristino di tradizioni perdute, l’attenzione dei cinesi si posa su bellezza e grandezza degli edifici, piuttosto che sulla loro reale utilità e stabilità. Meglio se garantite dall’esperienza e dalla consulenza di un pool di architetti internazionali.

Un caso esemplare di questa collaborazione è rappresentato dal desolante paesaggio urbano di Ordos, una mega città futuristica e anche città fantasma, situata nella Mongolia centrale. Una città quasi disabitata, costruita per un milione di persone. La grandiosa architettura di cui è composta riempie oltre 220 chilometri quadrati di deserto e copre un’area più grande di Las Vegas, a 500 chilometri da Pechino.

Laboratorio di stili architettonici all’avanguardia, ha raccolto le originali idee di progettazione di architetti di tutto il mondo. Prezzi troppo elevati e l’isolamento delle costruzioni dai maggiori centri del paese hanno tenuto a distanza acquirenti e abitanti. Tanto che oggi, in un disperato tentativo di riempire le migliaia di case disabitate, il governo ha offerto agli agricoltori locali opportunità per acquistare con sconti e agevolazioni gli appartamenti.

Eppure, il tentativo è stato accolto con scarso successo e solo circa il 2 per cento degli edifici della città è abitato per un totale di quasi 100mila persone. Il resto è lasciato al degrado.

Questo è solo uno dei tanti casi di costruzioni innovative dimenticate sul territorio cinese.

Un peccato di strategia o manie di grandezza portate all’esasperazione?

Insospettabili interazioni accademiche e culturali anche in questo settore sono in corso tra Italia e Cina. Il principale Politecnico cinese nella regione di Guangdong che si occupa di pianificazione del territorio lungo il delta del Fiume delle Perle, una delle zone più urbanizzate del mondo, sin dalla fine degli anni 2000, si avvale della consulenza del Politecnico di Ferrara, uno dei migliori in Italia.

Nel Guangdong lavora l’architetto italiano Tobia Repossi, che ha studiato al Politecnico di Milano e che vive in Cina da diversi anni. Con lui, professionista del design, abbiamo cercato di comprendere meglio la mentalità, che sta dietro a scelte e progetti che occupano il campo dell’architettura cinese.

Subito, abbiamo imparato che il primo suggerimento per riuscire a ritagliarsi un posto nel settore edile cinese è quello di saper individuare il giusto committente.

Quali sono state le sue difficoltà primarie?

Mi sono trovato in Cina per caso. In effetti, è tipico degli espatriati trovarsi a vivere qui per gradi. La prima volta che ho messo piede nel paese è stato nel 2010 con un cliente cinese presentatomi da un amico. Il contatto è diventato poi sempre più frequente e sono passato dal vivere in un hotel a un appartamento in centro, e a vivere una vita estremamente differente. Tra l’altro, quando mi chiedono da quanti anni sono qui, mi trovo in difficoltà perché non ho una risposta pronta. Forse una data è quando ho preso la residenza.

Come si è organizzato in seguito?

Lo studio di design che ho fondato qui si occupa di prodotto industriale e design d’interni. Il Guangdong è un po’ la Brianza del mondo, un terzo del prodotto del pianeta viene da qua e noi facciamo tanta elettronica di consumo: accessori per smartphone, power bank, telefonini ed elettrodomestici. Nel caso degli interni arriviamo quando l’edificio è ancora al grezzo e facciamo diventare uffici e hotel, superfici enormi che sembrano grandi parcheggi dell’Ikea. Ci occupiamo tanto di spazi di lavoro per grandi compagnie europee con interessi in Cina o per compagnie cinesi che strizzano l’occhio ad aziende occidentali come Google, Facebook o altri big.

Settore poco sviluppato in Italia?

Entrambi i settori sono difficilmente percorribili ad un certo livello in Europa. Pensi al settore prodotto: a parte pochissime aziende e qualche start-up, in pochi fanno stampi di plastica ci mettono dentro metallo e silicio come riusciamo a fare qui. Per quanto riguarda gli interni, le metrature di cui ci prendiamo carico sarebbero per me irraggiungibili in Europa. Lo scorso anno abbiamo consegnato quasi mezzo milione di metri quadri, ma io ho amici e colleghi qui che viaggiano su cifre anche superiori. Un’utopia in Italia.

Quanti siete nello studio Tobia Repossi & Partners (托比亚 雷波西 设计工作室)?

Siamo in diciotto, per la Cina una struttura media, ma diciamo che siamo lo studio gestito da un non cinese più in vista a Shenzhen. L’unico senza gli occhi a mandorla sono io e in generale, se volessi confondermi tra la folla, le mie misure non aiuterebbero, visto che sono piuttosto alto.

Oltre che per le dimensioni, lei è stato messo in difficoltà da questo diverso rapporto nei numeri?

In realtà no, perché la metodologia è la stessa. La dura realtà dei fatti è che non mi volevo ridurre, dopo anni di lavoro in Europa volevo continuare comunque a essere nel posto dove le cose si fanno e oggi, per il mio caso, essere in Guangdong è mandatorio. In Italia ci torno ogni tre, quattro mesi, spesso per sistemare beghe di lavoro e di vita personale, ma se devo partire da qui, preferisco andare in vacanza!

È facile farsi degli amici in Cina?

Un tempo come espatriato era estremamente facile. In una città di fondazione come Shenzhen, che esiste da soli 10 anni, pur essendo in 20 milioni era facile individuare una faccia straniera. Trovarsi da espatriati era subito motivo di dialogo e una scusa per inventarsi nuovi progetti e nuovi business. Ci si sedeva al tavolo con tanta gente di alto livello, persone che stavano facendo delle cose importanti, potenziali clienti, investitori e business angel provenienti da tutto il mondo. Ad oggi, la comunità espatriata è più ampia, quindi c’è più entropia, ma rimane comunque abbastanza facile trovare persone vicine.

La comunità italiana, qui, dopo quella russa e quella irlandese è la terza in ordine di grandezza numerica. Inoltre, non è necessario sapere il cinese. Per quanto mi riguarda non so una parola: so muovermi con un cinese direzionale, da taxista e ristorante, piuttosto che da supermercato. Mi muovo con Baidu translate (versione asiatica di Google).

Quali sono state le soddisfazioni che da italiano l’hanno fatta sentire un po’ cinese?

In realtà, noi siamo una struttura cinese camuffata con una faccia italica e con l’Italia non abbiamo molto a che fare. Questo perché da designer italiano, mi viene richiesto l’oggetto, il mobile italiano, ma l’Italia consegna poco, male e in ritardo. Le piccole e medie imprese del Belpaese sono di fatto piccole-medie, mentre la Cina è grande-grande. Inoltre noi non siamo mai riusciti a “fare cartello” come, per esempio, hanno fatto i francesi con il vino.

Pensare che tutto qui parla di Italia, ma gli imprenditori italiani purtroppo faticano ad esserci.

Per un cinese che compra un appartamento da 25mila dollari al metro quadro, non è un problema comprare un mobile italiano, però aspettare un divano sei mesi e immobilizzare un capitale sì!

Noi siamo costretti a realizzare prodotti cinesi a volte di scarsa qualità, questa è la parte critica del nostro lavoro. Consegniamo lavori in tempo reale e disegniamo quando il cantiere è già in progress.

Per Tencent (un gruppo cinese che contiene il Facebook cinese, lo Skype cinese e proprietario di WeChat), il nostro migliore cliente, abbiamo un contratto che ci lega per tutta la Cina e realizziamo un ufficio ogni due mesi, spazi dai 20 ai 40mila metri quadri. Le cose qui si fanno e si devono fare molto velocemente.

Qual è il risvolto della medaglia?

La drammaticità di questo è che in Cina si pensa così facendo di esportare un metodo. Invece, a volte, la loro velocità e semplicemente data dalla leva finanziaria non da un metodo progettuale. Si parla tanto di infrastrutture leggendarie come grattacieli dalle forme mirabolanti costruiti a velocità pazzesche, in realtà questi manufatti salgono alla stessa velocità con cui sono state costruite le Torri Gemelle o l’Empire State Building agli inizi del ‘900, niente di così sorprendente. La realtà è che quando ci sono i soldi le autostrade, i viadotti e gli ospedali vanno avanti, e in Cina oggi ce ne sono, perciò i costruttori lavorano, gli architetti vengono pagati e le infrastrutture crescono.

Questi soldi, secondo lei, ci saranno per sempre?

Assolutamente no. Il Paese si deve stabilizzare e ci sono stati già diversi ridimensionamenti, in termini finanziari, che noi abbiamo sentito nelle paure dei nostri clienti, specialmente in quelli più piccoli anche se non in quelli governativi. La Cina ha una grossa sfida da affrontare, che è quella del 2017 per internazionalizzare il Renminbi.

Storicamente, vedi il caso di Alibaba, gigante cinese del commercio online, quando i cinesi tendono all’internazionale, prendono sempre delle grandi batoste, anche se poi si riaggiustano.

Ci può raccontare a livello architettonico, se esiste, qualche ‘leggenda metropolitana’?

La rivoluzione culturale ha cancellato tutta una serie di tradizioni locali, e c’è per questo un disperato tentativo di ritrovare elementi tradizionali. Sfortunatamente, ci si affida molto a superstizioni, numeri fortunati e cabale. Pensiamo, per esempio, alla vicenda del Pingan Building, il grattacielo che poteva essere il secondo più alto del mondo dopo il Burj Khalifa di Dubai. È stato macellato nella sua altezza dopo grandi proclami di grandezza, per una bizzarra superstizione nei confronti di un altro grattacielo cinese, lo Shanghai Tower.

Il governo cinese non voleva fosse il più alto, per questo si è deciso di fargli un bel buco nella facciata: per renderlo più Feng Shui friendly e farci passare lo spirito del Drago Volante o ‘serpente impennato’ Tengshe! Le tradizioni entrano in qualsiasi prodotto, persino in un condizionatore o in un frigorifero che debbono sempre avere strani pattern orientaleggianti, un po’ come se salendo su una BMW ci aspettassimo di trovare birra e crauti.

La fantasia sembra non mancare. Manca forse un po’ di creatività ai cinesi?

È così, ma per poco. Infatti, stanno costruendo fabbriche di creatività e si stanno dotando, e comprando, idee e start-up da tutto il mondo. Oggi Shenzhen è una città con 600 tra acceleratori e incubatori, con un sistema fatto di fornitori, di avvocati e consulenti a servizio delle di start up, che è più ampio di quello della Silicon Valley.

Infatti, non a caso, gli start upper sono un po’ di qua e un po’ di là, di qua per l’hardware e in California per il software. Il governo sta investendo sulle idee, perché questo è l’ultimo anello della catena del progetto che manca.

La logica del saper fare c’è, le infrastrutture e la finanza per poter fare ci sono, la tecnicalità c’è e a oggi mancano solo le idee.

Una sorta di catena di montaggio, una fabbrica, a cui mancano collegamenti basilari? Una debolezza?

Giganti coi piedi di argilla. Ogni cosa viene fatta, ma spesso attaccata con del chewing-gum. A volte penso che questo derivi dalla loro logica di linguaggio.

La non distinzione tra significato e significante: nell’ideogramma ciò che è rappresentato è ciò che è. Quindi, in generale, se assomiglia è, ma alla fine non è, somiglia a basta. Insomma, “se sta su e da lontano funziona, allora va bene”.

Questa è la loro grande debolezza in tutto, perché li porta a copiare e a ricopiare il simbolo dell’albero all’infinito fino a quando non è perfetto, ma a tutti gli effetti, li porta anche a non poter dire un’altra parola che non sia albero.

Dicono l’ho fatto io, ma non l’ho creato io. La frase che va per la maggiore qui è ‘sarei in grado di farlo anch’io’. Però se fossi stato in grado di farlo, lo avresti già fatto. Insomma, se non lo fai per primo lo stai ‘rifacendo’, non facendo. Da qui si apre tutto il sistema del rapporto con la ‘copia’ delle idee. Parliamo di tutele.

Quale organo in Cina tutela la sua professione?

L’aspetto della tutela della professione è completamente diverso da quello Italiano. La mia iscrizione all’Ordine degli Architetti è assolutamente carta straccia. In Cina, come del resto in buona parte del mondo, per avere il visto di residenza e quindi poter esercitare viene chiesto il titolo di laurea e da qualche anno la provenienza da un istituto universitario rinomato.

Comprendo che ciò possa scoraggiare i diplomati di scuole private o i laureati di università minori, ma il quadro oggi è questo. Le università Italiane riconosciute con questo merito sono pochissime.

Per quanto riguarda invece lo svolgimento della professione?

L’abilitazione viene data all’azienda e non alla persona fisica. Ci sono requisiti in termini di numero di persone e dei loro titoli, attrezzature e dotazioni e naturalmente una bella cifretta da spendere ogni anno per il rinnovo.

Pensi che il timbro per il design di interni costa circa una ventina di migliaia di dollari e quello per l’architettura anche fino a 200mila.

Vede più lati positivi o negativi in questo?

Non so se il sistema sia più funzionale, sicuramente tende a creare grossi accorpamenti di architetti e di aziende che vogliono fare tanto ‘chiavi in mano’, e mantiene l’esclusività della professione centrata sull’azienda e non sul singolo.

La garanzia economica in caso di danni a terzi o alla comunità di un’azienda è sicuramente superiore a quella di un piccolo professionista.

Ciò detto, questa formula ha sicuramente dei lati positivi e negativi, ma mi pare sempre più moderna rispetto all’anacronismo di un fenomeno tutto italiano e superato come quello degli ordini professionali.

Ci sono idee innovative nel suo campo?

Certo, perché le grosse aziende si dotano dei migliori e li pagano. E questo è ormai diventato un must: se non possono comprarti fanno di tutto per comprarti.

Lei si è ritrovato in questo circuito?

Non parlavo di corruzione, cosa peraltro nelle radici del sistema e della cultura. Intendevo comprarti dal punto di vista professionale, perché non vogliono sentirsi dire ‘no, questo lavoro non lo voglio fare’. La domanda successiva è: ‘Allora quanto vuoi per farlo?’ e a volte è proprio ‘no, non lo voglio fare’.

A lei è capitato?

Certo. Mi diverto molto a dire ‘no’ in una cultura dove la parola no è sostituita dalla perifrasi, ne faccio un’arma di trattativa.